Il Purgatorio

Capitolo 1-8: Pene del Purgatorio.

02/03/2017    1874     Il dogma del Purgatorio    Santa Teresa D’Avila 
Ai fatti precedenti aggiungiamo ancora il seguente, ricavato dagli annali della Compagnia di Gesù, cioè il prodigio avvenuto nella persona di Antonio Pereyra, fratello coadiutore di detta Compagnia, morto in odore di santità nel Collegio di Evora in Portogallo, il 10 agosto 1645. - Quarantasei anni prima, nel 1599, e cinque anni dopo la sua entrata nel noviziato, questo fratello fu colpito da una mortale malattia nell'isola di San Michele, una delle Azzorre; e pochi istanti dopo d'aver ricevuto gli ultimi sacramenti, sotto gli occhi di tutta la comunità che assisteva alla sua agonia, sembrò rendere l'anima, e ben presto divenne freddo come un cadavere. L'apparenza quasi impercettibile d'un leggero palpito di cuore fu il solo ostacolo ad una pronta sepoltura. Si lasciò dunque per tre giorni intieri sul suo letto di morte; di già si scoprivano nel suo corpo segni evidenti di decomposizione, quando tutto ad un tratto, il quarto giorno, aprì gli occhi, respirò e parlò.

Allora gli fu imposto per obbedienza di raccontare al suo superiore, il P. Luigi Pinheyro, tutto quanto gli era avvenuto, dopo le ultime angosce della sua agonia; ed ecco il sunto della relazione scritta di sua propria mano: «Dapprima, dice egli, dal mio letto di morte vidi il mio Padre S. Ignazio, accompagnato da alcuni dei nostri Padri del Cielo, che veniva a visitare i suoi figli infermi, cercando quelli che gli sembravano degni d'esser da lui e dai suoi compagni offerti a Nostro Signore. Quando fu vicino a me, credetti per un momento che seco mi avrebbe condotto, ed il mio cuore balzava per la gioia; ma ben presto mi indicò di che cosa doveva correggermi prima d'aver una sì grande fortuna».

Tuttavia allora, per una misteriosa disposizione della Provvidenza, l'anima del fratello Pereyra momentaneamente si distaccò dal suo corpo, e tosto la vista d'una orribile truppa di demoni, che si precipitavano su di lei, la riempì di spavento. Ma nel tempo stesso il suo angelo custode e S. Antonio da Padova, suo compatriota e suo patrono, scendendo dal Cielo, misero in fuga i suoi nemici, e la invitarono ad andare, in loro compagnia, a cominciar a vedere e gustare per un momento qualche cosa delle gioie e dei dolori dell'eternità: «Mi condussero dunque alternativamente, aggiunge, egli, verso un luogo di delizie, dove mi mostrarono una corona di gloria incomparabile, ma che non aveva ancora meritato; poscia sull'orlo del pozzo dell'abisso, ove vidi le anime maledette cadere nel fuoco eterno con tanta furia come i grani di frumento gettati sopra una macina che si volge senza riposo; la voragine infernale era come una di quelle fornaci ove per un momento la fiamma e come soffocata sotto l'ammasso del materiale che vi si precipita, ma per risollevarsi, nutrendosene, con più spaventevole violenza».

Di là condotto al tribunale del Giudice supremo, Antonio Pereyra udì d'essere condannato al fuoco del Purgatorio; ed assicura che nulla quaggiù varrebbe a far comprendere ciò che vi si patisce, né lo stato d'angoscia in cui vi si è ridotti pel desiderio e per la dilazione, del godimento di Dio e della beata sua presenza.

Quindi, quando la sua anima fu di nuovo riunita al corpo per comando di Nostro Signore, né i novelli patimenti della malattia, che colla cura giornaliera del ferro e del fuoco, per sei interi mesi terminò di far cadere a brani la sua carne, irrimediabilmente attaccata dalla corruzione di quella prima morte; né le spaventevoli penitenze alle quali non cessò d'abbandonarsi per quanto glielo permetteva l'obbedienza, nei quarant'anni della novella sua vita, poterono saziare la sua sete di dolori e di espiazioni. «Tutto ciò, diceva, è un niente, dopo quanto la giustizia e la misericordia infinita di Dio mi fecero, non solo vedere, ma soffrire». Finalmente, come autentico sigillo di tante meraviglie, il fratello Pereyra, in particolare, scoprì al suo superiore i segreti disegni della Provvidenza sulla futura ristorazione del regno del Portogallo, allora ancora lontana di più d'un mezzo secolo. Ma senza paura si può aggiungere, che la più irrecusabile garanzia di tutti questi prodigi fu la sorprendente santità, alla quale Antonio Pereyra non cessò per un solo istante di innalzarsi.

Lo stesso rigore si manifesta in una apparizione più recente, nella quale una religiosa, morta dopo una vita esemplare, manifestò i suoi patimenti in modo da gettar lo spavento in tutte le anime. Il fatto avvenne il 16 novembre 1869 a Foligno, vicino ad Assisi, in Italia, producendo un gran rumore nel paese; e, oltre la prova sensibile lasciata, un'inchiesta fatta nelle dovute forme dalla competente autorità incontestabilmente ne stabilì la verità.

Vi era nel convento delle Terziarie francescane di Foligno una suora chiamata Teresa Gesta, che da molti anni era maestra delle novizie, ed incaricata al tempo stesso del povero vestiario della comunità. Era nata a Bastia, in Corsica, nell'anno 1727, ed era entrata nel monastero nel 1826.

Suor Teresa era un modello di fervore e di carità e «non bisogna far le meraviglie, diceva il direttore, se con qualche prodigio Dio la glorificava dopo morte». Morì improvvisamente d'un colpo d'apoplessia fulminante il 4 novembre 1859.

Dodici giorni dopo, il 16 novembre, una suora, per nome Anna Felicita, che la surrogava nel suo ufficio, saliva alla guardaroba e stava per entrarvi, quando udì dei gemiti che sembravano venire dall'interno della camera. Un poco spaventata, s'affrettò ad aprire la porta: vi era nessuno. Ma nuovi gemiti si fecero udire, e così bene distinti che, ad onta dell'ordinario suo coraggio, si sentì invasa dalla paura. - Gesù! Maria! esclamò, che è ciò? - Non aveva finito, che udì una voce lamentevole, accompagnata da questo doloroso sospiro: - Ah! mio Dio, quanto soffro! - Stupefatta, la suora riconobbe tosto la voce della povera suor Teresa. Allora tutta la stanza si riempì d'un denso fumo, ed apparve l'ombra di suor Teresa, che si dirigeva verso la porta, pian piano scivolando lungo il muro. Giunta vicina alla porta, con forza gridò: Ecco una prova della misericordia di Dio! Dicendo queste parole batté l'assicello più alto della porta, e vi lasciò l'impronta della mano destra nel legno bruciato, come da un ferro rovente: poscia scomparve.

La suora Anna Felicita era rimasta mezza morta per lo spavento. Tutta conturbata, si mise a gridare ed a chiamar aiuto. Accorse una delle sue compagne, poi una seconda, indi tutta la comunità: si stringono attorno a lei, e tutte meravigliano di sentire un odore di legno bruciato. Suor Anna Felicita dice loro quanto successe e loro mostra sulla porta la terribile impronta. Subito esse riconoscono la mano di suor Teresa, che era in modo notevole piccola. Spaventate, si danno alla fuga, corrono al coro, si mettono a pregare, passano la notte in preghiere ed a far penitenza per la defunta, e l'indomani tutte fanno per lei la comunione.

La notizia si sparge al di fuori, e le varie comunità della città uniscono le loro preghiere a quelle delle Francescane. - Al dopodomani, 18 novembre, essendo suor Anna Felicita entrata nella sua cella per coricarsi, intese chiamarsi per nome, e perfettamente riconobbe la voce di suor Teresa. All'istante stesso, un globo di luce tutto risplendente comparve dinanzi e lei, rischiarando la cella come in pieno giorno, e udì Suor Teresa che, con voce allegra e trionfante, disse queste parole: Io sono morta in venerdì, giorno della passione, ed anche in venerdì vado alla gloria! Siate forti nel portare la croce, siate coraggiose per soffrire; amate la povertà. Poscia aggiungendo con affetto: Addio, addio, addio! si trasfigurò in nuvola leggera, bianca, abbagliante, volò al cielo e scomparve.

Nell'inchiesta che subito fu aperta, il 23 novembre, alla presenza d'un gran numero di testimoni, si aprì la tomba di suor Teresa e l'impronta bruciata della porta con tutta esattezza si trovò conforme alla mano della defunta. «La porta coll'impronta bruciata, aggiunge monsignor De Ségur, è con venerazione conservata nel convento. La stessa madre badessa, testimone del fatto, si degnò mostrarmela».

Volendo assicurarmi dell'esattezza perfetta di queste particolarità riferite da Mons. De Ségur, ne scrissi al vescovo di Foligno. Mi fu risposto coll'invio di una Relazione perfettamente circostanziata e conforme al racconto precedente, ed accompagnata da un fac-simile della miracolosa impronta. Quella Relazione spiegava la causa della terribile espiazione cui fu assoggettata Suor Teresa. Dopo aver detto: Ah! mio Dio, quanto soffro! aggiunse che ciò era per avere, nell'esercizio del suo uffizio di guardarobiera, mancato in alcuni punti alla stretta povertà prescritta dalla regola.

Dunque la divina giustizia punisce ben severamente i più piccoli falli.

Qui si potrebbe domandare perché suora comparsa, facendo la misteriosa impronta sulla porta, la chiamò una testimonianza della misericordia di Dio. Si è perché, dandoci un somigliante avvertimento, Dio ci fa una grande misericordia; ci stimola nel modo più efficace ad aiutare le anime e provvedere a noi stessi.

Dacché parlammo d'una impronta bruciata, riferiamo un fatto analogo, avvenuto in Ispagna e che colà ebbe una grande celebrità. Ecco come lo racconta Ferdinando di Castiglia nella Sua Storia di S. Domenica. Santamente viveva un religioso domenicano nel suo convento di Zamorra, città del regno di Leone. Era stretto in amicizia con un fratello francescano, esso pure uomo di grande virtù. Un giorno, trattenendosi assieme delle Cose eterne, vicendevolmente si promisero che il primo che morisse, se Dio lo permetteva, sarebbe apparso all'altro per dargli salutari avvisi. Per primo morì il frate Minore; ed un giorno che il suo amico, il figlio di S. Domenico, preparava il refettorio, gli apparve. Dopo d'averlo con rispetto ed affetto salutato, gli disse essere del numero degli eletti; ma che prima di godere della celeste beatitudine, molto gli restava a soffrire per un'infinità di piccoli falli di cui durante la vita non aveva avuto sufficiente pentimento. «Nulla, aggiunse, può sulla terra dare un'idea dei tormenti che soffro, e Dio mi permette di mostrarvene un sensibile effetto». - Dicendo queste parole, stese la mano destra sulla tavola del refettorio, ed un segno restò improntato sul legno carbonizzato, come se vi fosse stato applicato un ferro rovente.

Tale fu la lezione di fervore che il defunto francescano diede al suo amico vivo, e giovò non solo a lui, ma a tutti quelli che videro quel segno del fuoco, tanto profondamente significativo, giacché quella tavola divenne un oggetto di divozione, venendosi da tutte le parti a contemplarla. «Si vede ancora a Zamorra, dice il P. Rossignoli, al momento in cui scrivo; per conservarla si ricoprì con una lastra di rame». E solo dopo la rivoluzione non si poté più trovare, al pari di tanti altri ricordi religiosi.

Per fare maggiormente impressione sui nostri sensi, piacque a Dio di far provare ad alcuni santi personaggi un leggero saggio delle pene espiatrici, come una goccia del calice amaro che devono bere le anime, come scintille del fuoco che le divora.

Lo storico Bzovio nella sua Storia della Polonia sotto l'anno 1590, riferisce un fatto miracoloso, successo al venerabile Stanislao Chocosca uno dei luminari dell'Ordine di S. Domenico in Polonia. Un giorno in cui questo religioso, pieno di carità per i defunti, recitava il santo rosario, vide comparirgli vicino un'anima tutta divorata dalle fiamme. Siccome lo supplicava di aver pietà di lei e di addolcire gli intollerabili dolori che le faceva soffrire il fuoco della divina giustizia, il santo le chiese se quel fuoco era più doloroso di quello della terra: «Ah! esclamò quell'anima, tutti i fuochi della terra paragonati a quelli del Purgatorio, sono come un zefiro rinfrescante: Ignes alii levis auree locum tenent, si cum ardore meo comparentur». - Stanislao penava a crederlo: «Vorrei, disse, farne la prova. Se Dio lo permette, pel vostro sollievo e pel bene dell'anima mia, consento a sostenere una parte delle vostre pene. - Ohimè! voi non lo potreste. Sappiate che un uomo mortale senza morire all'istante non potrebbe sopportare un tal tormento. Tuttavia Dio vi permette d'averne un leggero saggio: stendete la mano». Chocosca stese la mano, ed il defunto vi lasciò cadere una goccia del suo sudore, o almeno di un liquido che ne aveva l'apparenza. All'istante il religioso, mandando un acuto grido, cadde a terra privo di sensi, tanto fu terribile il dolore.

Accorsero i suoi confratelli e si diedero a procurargli quelle cure che erano richieste dal suo stato. Quando ritornò in sé, ancora tutto pieno di spavento, raccontò l'orribile fatto avvenutogli e di cui tutti vedevano la prova.

Fonte: www.preghiereagesuemaria.it