Il Purgatorio

Il Purgatorio nella rivelazione dei santi - Capitolo III: LE PENE DEI, PURGATORIO E IL LORO RIGORE

Pena del danno e pena del senso

Dopo, la divina sentenza, supposto che l'anima sia condannata al Purgatorio, il desiderio di purificazione invade l'anima stessa, che nella pena che le è riservata vede la via che la condurrà più presto in Paradiso. S. Caterina da Genova, nel suo meraviglioso Trattato del Purgatorio, dice che l'anima corre a precipitarsi in Purgatorio, tanto è grande l'orrore che concepisce dei suoi falli dinanzi alla purezza e alla santità di Dio e tanto è impaziente di purificarsi dalle sue sozzure. Ecco le parole della Santa: «Siccome lo spirito mondo e purificato non trova luogo, eccetto Dio, per suo riposo, essendo stato creato a questo fine; così l'anima in peccato, altro luogo non trova adatto, salvo l'Inferno, avendole ordinato Iddio quel luogo per fine suo: perciò in quell'istante in cui lo spirito e separato dal corpo, l'anima corre verso l'ordinato suo luogo, senz'altra guida che la natura del peccato, quando l'anima parte dal corpo in peccato mortale. E se l'anima non trovasse in quel punto quell'ordinazione (procedente dalla giustizia di Dio) rimarrebbe in un maggiore inferno; perciò non trovando luogo conveniente, nè di meno male per lei, per l'ordinazione di Dio vi si getta dentro, come nel suo proprio luogo.

« Così a proposito del Purgatorio, l'anima separata dal corpo, non trovandosi in quella purezza nella quale fu creata, e vedendo in sè l'impedimento che non le può essere levato se non per mezzo del Purgatorio, presto vi si getta dentro, e volentieri e se non trovasse questa ordinazione, atta a levarle quell'impaccio, in quell'istante in lei si genererebbe un vero inferno, vedendo di non potere accostarsi (per l'impedimento) al suo fine, che è Dio, il quale le è tanto a cuore, che in comparazione al Purgatorio è da stimarsi nulla, benchè, come si è detto, sia simile all'Inferno (cap- 7)». Le rivelazioni dei Santi confermano quanto dice S. Caterina da Genova. Leggiamo in S. Geltrude come una religiosa del suo monastero, nota per le sue austere virtù, essendo morta ancor giovane con sentimenti di edificante pietà, si manifestasse alla Santa, mentre questa stava pregando per lei. La defunta fu vista innanzi al trono dell'Altissimo circondata da una brillante aureola e ricoperta di ricche vesti tuttavia sembrava triste in volto e pensierosa, e teneva gli occhi bassi quasi si vergognasse di comparire innanzi a Dio. Sorpresa Geltrude, domandò al divino Sposo delle vergini la causa di quella tristezza e di quel timore, e lo pregò di invitare quella sua sposa presso a lui. Allora Gesù, fatto cerino a quella buona religiosa di avvicinarsi, le sorrideva con amore; ma ella sempre più turbata ed esitante, dopo aver fatto un grande inchino alla Maestà di Dio, si allontanò. Santa Geltrude, più che mai stupita, rivolgendosi direttamente a quell"anima, le disse: - Figlia mia, perché egiti e ti allontani, mentre il Salvatore t'invita? Hai sempre desiderato questa suprema felicità durante la vita terrena, ed ora che sei chiamata a goderne, te ne rimani così fredda e impassibile? Non vedi forse che il buon Gesù ti aspetta? - Ma quell'anima rispose - Ah! madre mia, io non sono ancora degna di comparire innanzi all'Agnello immacolato, poiché mi restano ancora alcune macchie da purificare. Per potersi avvicinare al Sole di Giustizia bisogna essere più puri della luce stessa ed io non ho ancora questa perfetta purezza che egli brama di contemplare nei suoi Santi. Anche se le porte del cielo fossero spalancate dinanzi a me e da me sola dipendesse il varcarle, non oserei giammai di farlo prima di essere intieramente purificata dalle più piccole colpe; mi sembrerebbe che il coro delle Vergini, che seguono di continuo l'Agnello divino, mi dovesse scacciare lontano da lui per non esserne degna. - Ma come può esser ciò che mi dici, rispose la Santa, se io ti vedo, o mia figlia, circondata di luce e di gloria? - Quanto voi vedete, rispose quella, non è che la frangia delle vesti sublimi dell'immortalità. Ben altra cosa è il vedere Iddio, il vivere in lui e possederlo per sempre! Per conseguire però questa grazia è necessario che l'anima non abbia in sè la più piccola macchia di colpa.

Così, dopo il giudizio, si inizia la purificazione, hanno inizio le pene. E quali pene! Vicino alla bara di un nostro caro, che le sofferenze hanno consumato, ci confortiamo ordinariamente dicendo: - Almeno ha finito di patire!... - Oh! finissero veramente, col finire della vita presente, le nostre pene! Il corpo cessa di soffrire, ma le sofferenze dell'anima possono continuare, possono accrescersi, e continuano e crescono generalmente.

Inifatti secondo quello che insegnano i Dottori, i patimenti del Purgatorio non solo son riservati a quasi tutte le creature umane, ma per la loro intensità neppure sono da paragonarsi ai patimenti della vita presente. Secondo S. Tommaso, il quale del resto non fa che riferire l'unanime insegnamento dei Padri, le pene del Purgatorio in nulla differiscono dalle pene dell'Inferno, eccetto che nella durata. Altrettanto asseriscono i mistici. Ecco quel che leggiamo in S. Caterina da Genova:
«Le anime purganti provano un tal tormento, che lingua umana non può riferire, nè alcuna intelligenza darne la più piccola nozione, a meno che Iddio non lo facesse conoscere per grazia speciale (Tratt. del Purg., cap. 2). V'è nel Purgatorio, come nell'Inferno, doppia pena, quella del danno, che consiste nella privazione di Dio, e quella del senso. La pena del danno è senza paragone più grande, ed è tanto più intensa in quantochè quelle anime vivendo nell'amicizia di Dio; sentono più forte il bisogno di unirsi a lui » (Id.).

La Chiesa non si è mai pronunziata sulla natura della pena del senso. Nel Concilio di Firenze fu lungamente dibattuta anche questa questione fra i Greci e i Latini, ma per non porre ostacolo alla desiderata unione delle due Chiese, nulla venne deciso. Però siccome tutti i teologi insegnano che questa pena è quella del fuoco, come pei dannati, sarebbe temerità allontanarsi da tale opinione. Secondo S. Gregorio Magno, S. Agostino e S. Tommaso, questo fuoco è sostanzialmente uguale a quello dell'Inferno: la differenza consiste solo nella durata. Agli insegnamenti dei Padri e dei Teologi, fanno eco gli insegnamenti dei Mistici e le rivelazioni dei Santi. Nella storia del Padre Stanislao Choscoa, domenicano, leggiamo il fatto seguente (Brovius, Hist.Hist, de, Pologne, année 1590).

Un giorno, mentre questo santo religioso pregava per i defunti, vide un'anima tutta divorata dalle fiamme, alla quale avendo egli domandato se quel fuoco fosse più penetrante di quello della terra: - Ahimè!, rispose gridando la misera, tutto il fuoco della terra paragonato a quello del Purgatorio è come un soffio d'aria freschissima. -. E come ciò è possibile? soggiunse il religioso. Bramerei farne la prova a condizione che ciò giovasse a farmi scontare una parte delle pene che dovrò un giorno soffrire in Purgatorio. - Nessun mortale, replicò allora quell'anima, potrebbe sopportare la minima parte di quel fuoco senza morirne all'istante tuttavia se tu, vuoi convincertene, stendi la mano: - Il padre, senza sgomentarsi, porse la mano, sulla quale il defunto avendo fatto cadere una goccia del suo sudore, o almeno di un liquido che sembrava tale, ecco all'improvviso il religioso emettere grida acutissime e cadere in terra tramortito, tanto era grande lo spasimo che provava. Accorsero i suoi confratelli, i quali prodigarono al poveretto tutte le cure, finchè non ottennero che ritornasse in sè. Allora egli pieno di terrore raccontò lo spaventoso avvenimento, di cui egli era stato testimone e vittima, conchiudendo il suo discorso con queste parole – Ah! fratelli miei, se ognuno di noi conoscesse il rigore dei divini castighi, non peccherebbe giammai facciamo penitenza in questa vita, per non doverla poi fare nell'altra, perché terribili sono quelle pene; combattiamo i nostri difetti, e correggiamoli, e specialmente guardiamoci dai piccoli falli, poichè il Giudice divino ne tiene stretto conto. La maestà divina è tanto santa che non può soffrire nei suoi eletti la minima macchia. - Dopo di che si pose in letto, ove visse per lo spazio di un anno in mezzo ad incredibili sofferenze prodottegli dall'ardore della piaga che gli si era formata sulla mano. Prima di spirare esortò nuovamente i suoi confratelli a ricordarsi dei rigori della divina giustizia, e quindi morì nel bacio del Signore. Lo storico soggiunge che questo esempio terribile rianimò il fervore in tutti i monasteri, e che i religiosi si eccitavano a vicenda nel servizio di Dio, affine d'essere salvi da così atroci supplizi.

Un fatto quasi uguale avvenne alla beata Caterina da Racconigi (Diario Domenicano, Vita della Beata, 4 Sett.). Una sera, mentre ella assalita dalla febbre stava coricata in letto si mise a pensare agli ardori del Purgatorio, e secondo la sua abitudine, rapita di lì a poco in estasi, fu condotta da nostro Signore in quel luogo di pena. Mentre osservava con terrore quegli ardenti bracieri e quelle fiamme divoratrici, in mezzo alle quali son trattenute le anime che hanno ancora da espiare qualche fallo, udì una voce che le disse: - Caterina, affinchè tu con maggior fervore possa procurare la liberazione di queste anime, sperimenterai per un istante nel tuo corpo le loro sofferenze. - In questo mentre una favilla di quel fuoco andò a colpirla nella guancia sinistra: le consorelle che si trovavano vicino a lei per curarla videro benissimo questo fatto, e nel tempo stesso osservarono con orrore che il viso di lei si gonfiò in maniera spaventosa, mantenendosi poi per più giorni in quello stato. La Beata raccontava alle sue sorelle che tutti i patimenti da lei sofferti fino a quel momento (ed erano stati molti), erano nulla a paragone di quello che le faceva soffrire quella scintilla. Fino a quel giorno erasi sempre occupata in modo tutto speciale di sollevare le anime purganti, ma d'allora in poi raddoppiò il fervore e l'austerità per accelerare la loro liberazione, poichè sapeva omai per esperienza il gran bisogno che quelle hanno d'essere sottratte ai loro supplizi.

Racconteremo ora quanto accadde a Sancio virtuosissimo re di Spagna, com'è riferito da Giovanni Vasquez. (Cronica, an. 940).

Questo principe, fervente cristiano, morì avvelenato da uno de' suoi vassalli. Dopo la sua morte la consorte Guda non cessava di pregare e di far pregare pel riposo di quell'anima: fece celebrare un numero immenso di Messe, e per non separarsi da quelle care spoglie, prese il velo nel monastero di Castiglia, dove era stato sepolto il corpo del consorte. Indi a qualche tempo mentre un sabato ella stava pregando con gran fervore la SS. Vergine per la liberazione del defunto, le apparve costui, ma oh Dio! in qual misero stato! Era vestito in gramaglia, e per cintura portava doppio giro di catene arroventate, e rivolgendosì a Guda, le dìsse: - Ti ringrazio delle preghiere che fai per me e delle Messe che facesti celebrare in mio suffragio, ma prosegui, te ne prego, in quest'opera caritatevole. Se tu sapessi quanto io soffro faresti certamente assai di più, e il tuo zelo nel sollevare me, che tanto amasti sulla terra e che non hai cessato di amare, aumenterebbe d'assai. Per le viscere della divina misericordia soccorrimi, o Guda, soccorrimi, poichè queste fiamme mi divorano! - La pia Regina incominciò allora a raddoppiare preghiere, digiuni e buone opere affin di sollevare quell'anima si duramente martoriata. Per quaranta giorni non cessò di piangere a calde lacrime per ispegnere le fiamme che divoravano il suo povero marito; fece dispensare larghe elemosine ai poveri a nome del defunto, fece celebrare un gran numero di Messe, e a tal fine donò al monastero splendidi arredi. Passati i quaranta giorni le apparve nuovamente il Re, ma libero dalle catene di fuoco, e invece di gramaglia, ricoperto di un manto candidassimo, nel quale Guda riconobbe con sorpresa quello da lei donato alla chiesa del monastero, e che scomparso all'improvviso - dalla sacristia, si credette involato dai ladri. - Ecco, le disse il Re; grazie a te, io son libero e non ho più nulla a soffrire; sii benedetta per sempre! Persevera nei tuoi pii esercizi, e medita spesso sul rigore delle pene dell'altra vita e sulle gioie del Paradiso, dove io vado ad aspettarti. - A tali detti la Regina, piena di gioia, volle tendere le braccia verso il defunto consorte, ma questo disparve lasciando in mano di lei il mantello, che ella rese alla chiesa cui lo aveva donato la prima volta.

Assai interessante il fatto seguente, che leggiamo nella vita di S. Nicola da Tolentino. Un sabato, di notte, mentre il Santo dormiva, vide in sogno una povera anima del Purgatorio, che lo supplicò di celebrare nella mattina seguente il divin Sacrificio per lei e per molte altre anime che soffrivano in Purgatorio. Il Santo, avendo riconosciuto la voce di chi gli parlava, senza potersi tuttavia ricordare a quale persona a lui nota appartenesse, domandò allo spirito chi - fosse. - Io sono il tuo defunto amico Fra Pellegrino da Osimo, che purtroppo sarei andato dannato senza il soccorso della divina misericordia; mi trovo in luogo di pena; ho bisogno del tuo aiuto, ed anche a nome di molte altre anime infelici vengo a supplicarti di voler celebrare per noi domani la santa Messa, dalla quale attendiamo la liberazione, o almeno un gran sollievo dalle nostre pene. - Voglia il Signore applicarti i meriti del suo Sangue prezioso, rispose il Santo, ma in quanto a me, non posso soccorrerti domani col suffragio che mi domandi, perchè essendo officiante di settimana, siccome domani è giorno di festa, non potrei celebrare all'altare del coro la Messa dei defunti. – Deh! vieni, vieni almeno con me, gridò allora il defunto con lacrime e sìnghiozzi, te ne scongiuro per amor di Dio, vieni a contemplare le nostre sofferenze, e non sarai più sì crudele da negarmi il favore che ti domando: so che il tuo cuore è troppo buono perchè tu possa più oltre lasciarci in tante pene. Parve allora al Santo di essere trasportato in Purgatorio, dove vide una vasta pianura, nella quale una moltitudine di anime di tutte le età e condizioni erano tormentate con vari ed atroci supplizi. E qui bisognerebbe la penna dell'immortale Alighieri, del cantore sublime dell'Inferno e del Purgatorio per riferire i tormenti indicibili da cui vide il Santo afflitte quelle povere anime, e forse l'immaginazione stessa di Dante impallidirebbe dinanzi a tanto spettacolo di dolore. Non ci proveremo quindi a farlo, ma diremo solo che quegli spiriti penanti imploravano in coro coi gesti e colla voce gemente l'aiuto di san Nicola, al quale Fra Pellegrino disse: - Ecco, come vedi, la situazione di quelli ché mi hanno a te inviato: essendo tu caro al Signore, confidiamo che nulla rifiuterà egli all'oblazione del santo Sacrificio compiuta dalle tue mani, e siamo sicuri che la divina misericordia ci libererà. - Sparita in tal modo l'apparizione, il Santo non potè frenare le lacrime alla considerazione di sì straziante spettacolo, e postosi in preghiera per tutto il resto della notte, appena albeggiato corse a trovare il priore per raccontargli l'accaduto. Questi, penetrato dalla descrizione di quelle pene, lo dispensò non solo per quel giorno, ma per l'intera settimana dall'ufficio di ebdomadario, onde potesse durante quel tempo offrire il divin Sacrificio a sollievo di quelle povere anime. Il Santo in quel giorno e per tutta la settimana celebrò la Messa con straordinario fervore, dedicandosi inoltre giorno e notte alla pratica delle virtù e delle penitenze più austere, prolungando le sue veglie e le sue orazioni, digiunando a pane ed acqua, martoriando il suo corpo con discipline e portando una catena di ferro strettamente serrata ai fianchi. Al termine di quei sette giorni, il Santo ebbe la consolazione di vedersi nuovamente comparire Fra Pellegrino, non più in mezzo a quelle orribili torture, ma ricoperto di una veste candidissima e circondato di splendori celesti, in mezzo ai quali gioivano molte altre anime benedette, che tutte salutarono il Santo, chiamandolo loro liberatore, e cantando mentre salivano al cielo: Salvasti nos de af fligentibus nos, et odientes nos confudisti! (Ps. 43, 7).

Un altro fatto assai impressionante si legge nelle cronache domenicane a proposito del fuoco del Purgatorio (v. Ferdinando di Castiglia, Storia di S. Domenico, 2a parte, libro I, cap. a3). A Zamora, città del regno di Leon in Spagna, viveva in un convento di Domenicani un buon religioso, legato in santa amicizia ad un Francescano, uomo anch'egli di esimia virtù. Un giorno in cui i due frati s'intrattenevano fra loro di cose spirituali, si promisero scambievolmente che il primo che fosse morto sarebbe apparso all'altro, se cosa Dio fosse piaciuto, per informarlo della sorte toccatagli nell'altro mondo. Morì per primo il Francescano, e, fedele alla sua promessa, apparve un giorno al religioso Domenicano mentre stava preparando il refettorio, e - dopo averlo salutato con straordinaria benevolenza, gli disse di essere bensì salvo, ma che gli rimaneva ancora molto da soffrire per una infinità di piccoli falli, dei quali non si era emendato durante la vita. Poi soggiunse: - Niente v'è sulla terra che possa dare un'idea delle mie pene. - E perchè l'amico ne avesse una prova, il defunto stese la destra sulla tavola del refettorio, dove l'impronta rimase così profonda, quasi vi avessero applicato sopra un ferro rovente. Quella tavola si conservò a Zamora fino al termine del ‘700, epoca nella quale le rivoluzioni politiche la fecero sparire insieme con tanti altri ricordi di pietà dei quali abbondava l'Europa.

«Usque ad novissimum quadrantem!»

Ma forse, dirà qualcuno, supplizi così atroci saranno riservati ai grandi peccatori o a coloro che avendo accumulato quaggiù in terra colpe su colpe, si convertono solo in punto di morte senza far penitenza dei loro falli. Purtroppo non è così: i fatti sopra narrati e quelli che stiamo per raccontare dimostrano proprio il contrario, che saranno cioè puniti anche i falli leggeri, anche le mancanze che crediamo trascurabili e nelle quali cadiamo tanto spesso e tanto volentieri, illudendoci di non doverne pagare poi pena alcuna nell'altra vita.

Si legge nella vita della ven. Agnese di Gesù, religiosa domenicana, che per più di un anno sottopose il suo corpo ad asprissime penitenze, ed innalzò a Dio molte e ferventi preghiere pel defunto padre del suo confessore. Quest'anima le appariva sovente implorando i suffragi di lei, e un giorno avendole toccata una spalla con la mano, ebbe a soffrirci per più di sei ore gli ardori intollerabili del Purgatorio: finalmente il defunto fu liberato dopo tredici mesi da quelle torture. Sopra di che gli autori delle memorie sulla vita della madre Agnese fanno osservare il rigore dei divini giudizi; poichè il defunto avea santamente vissuto nel secolo, era un confessore della fede, essendo stato perseguitato dai protestanti di Nimes, i quali si erano impadroniti de' suoi beni, l'aveano gettato in prigione e vessata con ogni sorta di angherie; prima di morire aveva sopportato con pazienza esemplare una lunga e dolorosa malattia; eppure nonostante tanti meriti acquistati, nonostante i digiuni, le preghiere, le discipline della caritatevole Agnese, nonostante le numerose Messe celebrate dal figlio suo, ei restò più di un anno in mezzo a quelle torture spaventose.

Ma udite un esempio ancor più meraviglioso. Allorchè questa stessa madre Agnese era priora del suo monastero, una delle religiose per nome suor Angelica, venuta a morte, il dì seguente, a quello in cui era spirata il confessore della comunità ordinò alla superiora che si recasse a pregare sulla tomba di lei. Vi andò ella infatti, e trovandosi là inginocchiata tutta sola e nel cupo della notte, fu assalita da un subitaneo timore, insinuatole forse dal demonio, che voleva distorla da quel caritatevole officio. Abituata però com'era alle sue astuzie, si tenne salda ed offrì a Dio quello spavento in espiazione per la defunta, rappresentandogli come non fosse curiosità ma obbedienza che la induceva ad interessarsi dello stato di quell'anima, e poichè era a lui piaciuto di farla custode in vita di quella povera pecorella, fosse naturale ch'ella trepidasse per lei dopo la morte. Ed ecco venirle innanzi la morta in abito da religiosa, emettendo dal capo come una fiamma ardente, il cui calore bruciava quasi il viso della priora, alla quale suor Angelica con grande umiltà domandò perdono dei dispiaceri causatile durante la vita, ringraziandola dell'affettuosa assistenza che le avea prodigata nell'ultima malattia. La madre Agnese, da parte sua, tutta confusa, domandava perdono alla suora, pretendendo nella sua umiltà di non averle prestato tutte quelle cure, alle quali sarebbe stata tenuta nella sua carica di superiora. Ma suor Angelica seguitava a ringraziarla e ad attestarle la sua riconoscenza, perchè in vita le aveva spesso inculcate quelle parole del Vangelo: «Maledetto colui che compie con negligenza l'opera di Dio». La spronava in pari tempo ad eccitare le suore a servir Dio con sollecitudine e ad amarlo con tutto il cuore, e soggiunse: - Se si potesse arrivare a comprendere quanto son grandi i tormenti del Purgatorio, si starebbe sempre all'erta per cercare di evitarli. -

Tutti sanno quanto grande fosse il fervore delle prime compagne di S. Teresa, di quelle anime elette, che ella si era associate per la riforma del Carmelo. Eppure malgrado la loro santità e le loro eroiche penitenze, quasi tutte dovettero provare le pene del Purgatorio. Ecco quanto racconta a tal proposito la Santa stessa (Vita S. Teresa, scritta da lei stessa, cap. 30).« Una religiosa di questo monastero, gran serva di Dio, essendo morta appena da due giorni e recitandosi per lei in coro l'Ufficio dei defunti, mentre una suora leggeva una lezione ed io ero in piedi per dire il versetto, alla metà della lezione vidi l'anima della suddetta uscire dal fondo della terra e salire al cielo. « Nello stesso monastero moriva, in età di diciotto o venti anni circa, un'altra religiosa vero modello di fervore e di virtù, la cui vita era stata una serie non interrotta di patimenti e di dolori sofferti con ammirabile pazienza. Io non dubitavo che sarebbe libera dalle fiamme del Purgatorio; eppure, mentre circa quattro ore dopo la sua morte recitavo l'Ufficio, vidi parimenti la sua anima uscir dalla terra e salire al cielo ».

Dalla vita della beata Stefanina Quinzana togliamo un esempio, che avvalora quanto stiamo asserendo. Una religiosa domenicana, chiamata Suor Paola, era morta a Mantova dopo una lunga vita menata nell'esercizio delle più eroiche virtù. Il cadavere di lei, portato in chiesa, era stato posto in mezzo al coro, e mentre, secondo il rito ecclesiastico, ne veniva fatta l'assoluzione, la beata Stefanina Quinzana, che era legata da stretta amicizia alla defunta, inginocchiatasi presso la bara, si pose a raccomandare a Dio con tutto il fervore dell'anima la compianta amica. Quand'ecco questa all'improvviso lasciar cadere il crocifisso che teneva fra le mani, tendere la sinistra, ed afferrando con questa la mano destra della beata, stringerla con tanta forza, da non poterla più svincolare. Per più di un'ora quelle due mani restarono così serrate, durante il qual tempo Suor Stefanina sentiva in fondo al suo cuore una voce inarticolata, che diceva: - Soccorretemi, sorella mia, soccorretemi negli spaventosi supplizi che mi tormentano. Oh! se sapeste la rabbia dei nostri nemici invisibili nell'ora della morte, e la severità del Giudice che esige il nostro amore, che esamina le nostre più indifferenti operazioni, e l'espiazione da farsi prima di giungere alla ricampensa! Se sapeste come bisogna esser puri per ottenere la corona immortale! Pregate molto per me, sorella mia; ponetevi mediatrice fra la giustizia di Dio e i falli di me meschina; pregate, pregate e fate penitenza per me che non posso più aiutarmi. - Tutta la comunità rimase stupita a quel fatto, quantunque nessuno intendesse i lamenti della defunta; finalmente intervenne il superiore che in virtù di santa obbedienza comandò a suor Paola di lasciare Stefanina. Ubbidì subito la defunta, e la sua mano ripiombò inanimata sul feretro. - La storia della Beata riferisce che ella fu fedele alla preghiera dell'amica, e si diè ad ogni sorta di penitenze e di opere soddisfattorie, finchè una nuova rivelazione le fece conoscere che suor Paola era stata finalmente liberata da quei tormenti ed ammessa alla gloria eterna.

Vorremmo che le anime pie restassero colpite da questi esempi e ne approfittassero per emendarsi, considerando che quelle piccole imperfezioni, quei difetti di ogni giorno, di cui si accusano sì spesso al santo tribunale della penitenza, senz'averne però quasi mai una sufficiente contrizione, trovano nell'altra vita una rigorosa espiazione. Il fatto seguente valga ad affermare quanto andiamo dicendo.

Cornelia Lampognana fu una santa matrona che visse a Milano, ad imitazione di Santa Francesca Romana, nella professione perfetta dei tre stati di vergine, di sposa e di vedova. Essendo strettamente in santa amicizia con una religiosa del terz'Ordine di san Domenico, un giorno in cui s'intrattenevano delle cose dell'altra vita, si promisero scambievolmente che se così fosse piaciuto a Dio, la prima di loro che morisse, apparirebbe all'altra. Dopo cinque anni Cornelia passò da questa vita, e in capo a tre giorni si presentò alla sua compagna, mentre era in cella inginocchiata ai piedi del crocifisso. Stupita a tal vista, la religiosa esclamò: - O Cornelia, Cornelia mia, come sono felice di rivederti! Dove ti trovi tu dunque? Certo sarai già nel seno di Dio, che servisti in questa vita con tanto zelo ed amore! – Ahimè! Ancora no, rispose l'altra. Vedi come sono diversi i giudizi di Dio da quelli degli uomini! Io sono in luogo di pena e vi dovrò restare ancora per qualche tempo in espiazione dei falli della mia vita, che avrebbe potuto essere più fedele e più fervente. - Prendendo poi per mano la sua amica, soggiunse: - Vieni con me, e ti farò vedere cose meravigliose. - E postosi in cammino, arrivarono in un vasto campo tutto ripieno di bellissime viti, sulle cui foglie erano impressi dei caratteri. - Leggi - disse Cornelia alÍ'amica. Si chinò allora la suora e con grandissima sorpresa avendo letto su quelle foglie i propri difetti ed imperfezioni quotidiane, domandò attonita che cosa volesse ciò significare. Nulla di strano, sorella mia - rispose la defunta non hai forse letto spesse volte quelle parole pronunziate da nostro Signore nell'ultima cena: «Io sono la vite e voi i tralci»? Ogni nostra azione buona o cattiva è una foglia di questa mistica vigna; per entrare in cielo è necessario che le foglie del male siano distrutte e consumate dal fuoco: ma, consolati, sorella mia, poichè guardando ben da vicino, vedrai che poco ti resta a distruggere, avendo tu fedelmente perseverato nelle tue promesse verginali, e servito con zelo il tuo buon maestro. Sono è vero ancor numerose le tue mancanze, ma non tanto quanto le mie che percorsi sulla terra stati sì differenti e te ne voglio far convinta. - E avanzandosi di pochi passi si trovarono di nuovo in una località ripiena di viti serpeggianti e intrecciantesi da tutte le parti, in maniera che le foglie ricoprivano il suolo; ed appressandosi ansiosamente la suora per vedere che cosa fosse scritto su queste: - Fermati, le disse l'amica: il mio divin Salvatore non permette che tu conosca fin d'ora le offese che io gli feci, e vuol risparmiarmi tanta vergogna. Leggi soltanto quel che troverai scritto sulle foglie che vedi vicine a te. - Allora ella posando lo sguardo su quelle che le erano più dappresso, vide registrate tutte le mancanze commesse dalla defunta nel luogo santo, le irriverenze, le distrazioni, i discorsi inutili fatti in chiesa. - O mio Gesù, gridò allora la religiosa, che s'avrà da fare per rimediare a tanti falli? Come mai dopo le tue confessioni e comunioni sì frequenti, dopo le indulgenze da te guadagnate ti resta ancor tanto da espiare? - Giusto è quanto dici, o sorella, ma sappi che per la mia tiepidezza e per l'abitudine presavi, io non trassi tutto quel frutto che avrei dovuto dalle mie comunioni e confessioni, e quanto alle indulgenze avendone guadagnate pochissime, tre o quattro al più, a motivo delle mie abituali distrazioni e della mancanza di fervore, bisogna che faccia ora quella penitenza che non feci quando pur mi sarebbe riuscito si facile. -

Ragionerebbe quindi da insensato colui che dicesse di non pregare per un defunto, perchè visse e morì da santo. Quante anime deploreranno amaramente in Purgatorio questi giudizi troppo favorevoli sulla loro sorte di oltretomba. Noi abbiamo visto che S. Agostino aveva tutt'altra idea del rigore dei divini giudizi, dal momento che dopo venti anni pregava tutti i giorni e scongiurava i suoi lettori pel riposo dell'anima della sua santa madre Monica. A proposito dell'eccessiva facilità di giudicar santi alcuni defunti, riportiamo un esempio tratto dalla Cronaca dei Frati Minori. (Parte II, libro IV, cap. 7).

Nel convento dei Frati Minori di Parigi, essendo morto un santo religioso, che per la sua eminente pietà veniva soprannominato l'Angelico, uno de' suoi confratelli, dottore in teologia e uomo di molte virtù omise di celebrare le tre Messe solite a dirsi dai religìosi alla morte di ciascun confratello, sembrandogli di far quasi ingiuria alla misericordia e giustizia di Dio pregando per la salvezza di un uomo sì santo e che, secondo lui, doveva già trovarsi elevato al più alto grado di gloria. Ma ecco che in capo a pochi giorni, mentr'egli stava passeggiando assorto in meditazione per un viale del giardino, gli apparve il defunto tutto circondato di fiamme, gridando con voce lamentevole: - Caro maestro, ve ne scongiuro, abbiate pietà di me e soccorretemi. - E qual bisogno avete de' miei poveri aiuti, o anima santa? rispose il religioso. – Ahimè! Ahimè! Io sono ancor trattenuto nel fuoco del Purgatorio, in attesa delle tre Messe che voi avreste dovuto celebrare per me. Se aveste esattamente soddisfatto all'obbligo che le nostre costituzioni c'impongono, a quest'ora sarei già nella celeste Gerusalemme. - E poichè il religioso allegava per scusa la vita santa ch'egli aveva menato, le preghiere, le penitenze, l'esattezza scrupolosa da lui usata nell'osservanza della regola e tante altre sublimi virtù, il defunto esclamò: - Ahimè! Ahimè! Nessuno crede, nessuno comprende con quanta severità Iddio giudica e punisce le sue creature. L'infinita purezza di lui scopre difetti in tutte le nostre azioni. Se i cieli medesimi non vanno esenti da imperfezioni davanti ai suoi occhi purissimi, come l'uomo, creatura tanto miserabile, potrà comparire davanti a lui? Occorre rendere conto a Dio fino all'ultimo centesimo, usque ad novissimum quadrantem. Se con tutta la scienza che possedete, voi aveste compreso un po' meglio la santità infinita di Dio, oh! non mi avreste trattato con tanto rigore! - E ciò detto scomparve. Affrettatosi il buon religioso a celebrare le tre Messe domandate, nel terzo giorno gli apparve di nuova quell'anima benedetta per ringraziarlo e per annunziargli che, finite le pene, se ne andava a ricevere la ricompensa delle sue virtù.

Da tutto questo dobbiamo concludere che purtroppo non si pensa abbastanza ai rigori del Purgatorio e alla santità di Colui che non tollera la più lieve macchia nei suoi Santi. Se si meditassero un po' più spesso queste verità si eviterebbero con maggior cura quei falli leggeri, di cui facciamo si poco conto, e si pregherebbe con più fervore per quelle povere anime martoriate, che mentre viviamo ci sarebbe tanto facile soccorrere.

Fonte: www.preghiereagesuemaria.it